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di Antonio Moscato (da Movimento Operaio)
Ogni volta che un settore della magistratura e della Guardia di Finanza formalizza un’inchiesta su alcune delle gigantesche ruberie che hanno accompagnato da sempre le Grandi Opere, e che erano state denunciate infinite volte da minoranze coraggiose inascoltate (e spesso demonizzate), parte un coro garantista, con un uso inflazionato dell’aggettivo “presunto”, che insinua preventivamente che la denuncia sia frutto di un abbaglio, se non di un pregiudizio ostile. Vale per tutti i reati commessi da potenti, sul piano politico o economico. Solo per i “terroristi” della Val di Susa non si parla mai di “presunti”.
Ma soprattutto parte un coro che ripete: “bisogna punire i corrotti, ma non si deve rinunciare alle Grandi Opere, che servono alla crescita dell’Italia”. Una proposta mistificante, che ignora le molte ragioni che rendono indissolubili i legami delle Grandi Opere (quasi sempre inutili, sempre costose e spesso dannose) con la corruzione. La prima è che il MOSE, o l’Expo15, o il TAV della Val di Susa o il Ponte sullo Stretto non rispondevano minimamente a bisogni reali della popolazione, e non avevano sostenitori spontanei sui rispettivi territori: ecco la prima ragione di un’azione corruttrice che cerca di crearli offrendo molti microappalti collaterali, del tutto inutili, a imprese non sempre al di sopra di ogni sospetto. Ne beneficiano gli impresari, ma le briciole arrivano anche più in basso, ai lavoratori. Così si crea consenso… Gli affari più grossi sono comunque sempre già assegnati in partenza, in modo bipartisan, ai soliti noti: da un lato Impregilo, dall’altro la Cooperativa Cementieri e Muratori di Ravenna legata al PD. E dato che le grandi somme che circolano per queste funzioni sono ovviamente nascoste fuori dei bilanci formali, è evidente che a ogni livello della catena decisionale c’è chi pensa di ricavarne un profitto personale.